……Pensieri come vagoni
per utilizzare un ambiente estraneo, ma variegato, mutevole e impersonale ma umano e ordinario, per scrivere come davanti ad un film in cui gli attori si muovono e nessuno interagisce con te. Va bene, estremamente bene. È una finestra sulla vita, ma non è la vita fino a quando qualcuno non ti rivolge la parola, una domanda, un tentativo di penetrazione. Anche l’attenzione degli altri può essere glissata con la concentrazione. Scrivo velocemente e in modo sconnesso in metropolitana, per stare dietro ai miei pensieri che si muovono davanti ai miei occhi come vagoni. Una narrazione realistica dà l’impressione al lettore di avere acquisito esperienza, di avere vissuto sul campo. Così, nel tempo, le cose lette o raccontate si sovrappongono ai ricordi e diventano indistinguibili da questi. Ma allora, lo scrittore, ha il diritto di modificare il modo di percepire la realtà del suo lettore? Beh diciamo che si interviene sull’apprendimento. Si stratificano processi cognitivi e modi di conoscenza dell’autore su quelli del lettore. L’apprendimento e l’insegnamento sono una approssimazione della realtà, una intuizione dell’altro e una immedesimazione reciproca, un po’ come un rapporto sessuale, in cui non si può essere sicuri di aver provato le stesse cose. Se la conoscenza rende liberi, allora l’alterità rende liberi. Liberi di provare emozioni e sensazioni che nella vita reale di chi legge sarebbero difficili da incontrare. Aprire la mente, fare entrare nella propria mente un altro individuo. A chi non è mai capitato di pensare: - Vorrei avere scritto io questo romanzo, questo racconto, queste parole!
Può anche succedere di vivere una situazione nel quotidiano che ci sembra di avere già vissuto semplicemente perchè l’abbiamo letta. Il cosiddetto déjà vu.
Esternazioni..
Penso che vorrei dire qualcosa a qualcuno.
La scrivo, perché sono solo e non c’è fisicamente nessuno. Anzi c’è un tipo che mi osserva dall’alto della mia spalla sinistra e che pensa che io voglia scrivere qualcosa sulla scrittura.
Leggere e scrivere sono due momenti per comunicare. Sono parole e frasi che arrivano lente, intatte come un’eco, senza sciuparsi nel trasporto che dura anche secoli e millenni.
Leggere per uscire fuori da se stessi, scrivere per parlare ad alcune parti del “sé”.
Non riesco a mettere in fila tutti i pensieri con ordine. Mi lascio più guidare dalle emozioni, quando scrivo come il dio che ho dentro mi comanda.
Ho invece un approccio razionale alla lettura, nei primi momenti almeno, come quando conosco una persona nuova. La ascolto, studio le parole che usa, che percorsi vuol farmi imboccare per arrivare al nocciolo di una questione, se intende veramente comunicare e mettersi in relazione con me o solamente esporre dei fatti senza guardarmi negli occhi, senza far trasparire le cose in cui crede e scoprire il sentimento che tutti abbiamo e che molti purtroppo tendono a buttare nella spazzatura.
Quando io scrivo parlo essenzialmente a me stesso; me ne infischio di quello che pensano o che penseranno gli altri. Questo ha innanzi tutto il vantaggio di sentirsi liberi di poter dire tutto in maniera espressa, forte e densa, senza dover dare spiegazioni.
Quando scrivo, dicevo, parlo essenzialmente con me stesso e, indiscutibilmente, lo faccio attraverso quello che ho letto. Attraverso, perché quando passi attraverso una buona lettura non sei più lo stesso. Hai il fango sulle scarpe e la polvere sugli occhi, il sudore di una notte di sesso e a volte un istinto suicida, ti senti schizofrenico e hai l’entusiasmo di un bambino. Ma follie a parte, qual è la buona lettura?
È come chiedere al cercatore d’oro:- Dove troverai la pepita?
Io so solo che non è tutto oro quel che luce e che all’acqua promettente e gelida del fiume, preferisco quella piatta e sterminata dell’oceano che lascia sulla spiaggia sassi colorati sotto il sole. Ognuno può scegliere quello che più gli piace, anche se gli altri non lo chiameranno oro.
Scrivere è poi anche rispondere a tutte le domande che ognuno di noi continuamente si pone di giorno, ma ancor più di notte; attraverso tutti quei sogni inspiegabili fatti di immagini, suoni, percezioni sensoriali ed extrasensoriali: paure, angosce, attrazione, rifiuto. Tutti ci poniamo domande e le domande non devono per forza avere un punto interrogativo alla fine. Fatti un giro per strada, in metropolitana, al parco, sulla spiaggia: c’è gente che fa all’amore, assassini, benpensanti e gente triste, malati, sciancati, sfortunati, managers, fighi e fighe, preti e poi bambini che sono sempre incognita e speranza.
Ciascuno di noi ha concetti preconfezionati su ogni categoria:- Lui sì che è fortunato! Guarda quello poverino, sembra così triste!
Risposte di seconda mano a domande che tutti ci facciamo.
Quando io scrivo desidero rivolgermi a quella parte di me che mi ha cercato, che mi ha fatto una domanda, in sogno, al lavoro, al cesso, nuova a cui non ho ancora risposto. Magari lo faccio scrivendo una poesia per una donna, un racconto con personaggi sconosciuti. In mezzo a quest’avventura incontro gli autori che ho letto, del passato, del presente, le donne che ho amato e quelle che avrei voluto amare e tutti ritornano come splendenti di luce. Quando, per magia, capita che uno di loro mi faccia una domanda e io rispondo come avrebbero risposto loro… facciamo la pace e magari non mi fanno più domande per un po’ di tempo. In definitiva è come averli digeriti, assimilati e qualche volta espulsi. Quelli che restano puoi chiamarli fantasmi, indigestioni o conflitti, ma il concetto non cambia. Altre volte si mantengono inalterati come stimoli che non hanno ancora esaurito la loro funzione di spiriti - guida come Virgilio o ti traghetteranno invece giù per qualche abisso incognito e oscuro come Caronte.
Altra notazione è che nella scrittura, a differenza delle arti visive dove l’esperimento risulterebbe stridente, è possibile stabilire un parallelo tra il tempo presente, breve della nostra vita e quello passato e immenso della Storia. Il pensiero dell’uomo è universale e parlare con Aristotele e Kant, leggere Saffo e subito dopo Leopardi, diventa un’esperienza rassicurante e quasi commovente che testimonia come tutti noi, viventi e non, apparteniamo allo stesso comparto umano che non ha ancora esaurito di stupirci con i misteri del suo sentire , con le sue insicurezze, con le sue fragilità e anche con le sue speranze e le sue precarie certezze.
L’uomo ha creato un Dio superiore, più grande e più forte di lui, da cui poter ricevere esempio per la sua condotta sulla terra e consolazione alla sua solitudine nell’universo.
Così questa idea di Dio piove su di noi le idee che condensano nell’aria e si rivelano in quei giocosi circuiti chiamati sinapsi. A sua volta l’uomo le rielabora, le compone e le restituisce come opera d’arte, opera filosofica, scoperta scientifica al cielo come prodotto dell’intelligenza individuale o di un gruppo di individui. Se poi vi è proporzione tra momento storico ed entità dell’intuizione si parla di invenzione o di scoperta; ma se questa proporzione è tutta a favore dell’idea, allora si parla di genio!
È in questo continuo e liquido ciclo delle idee, dal cielo alla terra e dalla terra al cielo, che si inserisce il fenomeno di percezione, assimilazione e trasformazione del pensiero che non segue spesso fatti contingenti, ma si muove su di una ruota più ampia, slegata dal tempo dei nostri orologi e legata al continuum delle successioni. Le generazioni di individui si succedono in una ruota. Chi aspira all’idea è al centro della ruota dentata, i cui denti sono formati dagli uomini del passato. Ciò che governa il movimento della ruota dentata è il tempo, che ognuno di noi percepisce in modo diverso. Così c’è chi avrà in premio la sua idea in pochi anni e c’è chi invece non la avrà mai.
Quando io scrivo cerco di rivolgermi ai denti della ruota, di poter parlare un linguaggio umano, comprensibile da ciascuno di essi in termini di emozioni, sim-patia e fratellanza.
Quando scrivo mi rivolgo al tempo e, in definitiva, a chi accorda i cuori di tutte le ruote, cioè a Dio.